
Odi et amo. Quare id faciam, fortasse requiris.
Nescio, sed fieri sentio et excrucior.
Ritengo che non ci sia canto più celebre e che meglio intona il sentimento di un uomo per una donna. Non c’è ode più puntuale in merito alle motivazioni per cui un uomo debba prendersi la briga, la penna, il calamaio, la tastiera, la connessione internet e chi più ne ha più ne metta, per lodare la donna amata. Insomma, il carme catulliano è semplicemente lo scorgimento di un qualcosa, l’amore, di cui il poeta in quanto uomo ammette di non sapere bene di cosa si tratti. Eppure, pur considerando il dolore e lo struggimento che deriva da questo sentimento sconosciuto, il poeta sceglie di amare. Il poeta sceglie di cantare.
(Per chi non è pratico con quella lingua morta e stramorta che è il latino, di seguito la traduzione in napoletano tra il serio e il faceto di Stefano Benni).
Odio e amo: fusse che chiedi come faccio?
Nunn ‘o saccio, ma lo faccio e mme sient’ nu straccio!
Ah… Catullo
E poi ci sono io. Che scrivo perché sono in stage. Silvia, la volontaria SCN, Ada e Lucrezia, per l’alternanza scuola-lavoro. Scusatemi. Davvero.
Non potrei fisicamente e mentalmente scrivere di tutte e tre.
Oltre al fatto che siete troppe, chi si occuperebbe dei reliquiari conservati presso il Museo del Tesoro del Duomo? E dei codici miniati conservati alla Biblioteca Capitolare? Eh? Chi lo farebbe? O muse del museo?
Insomma, va bene Odi et amo. Però cerchiamo di affrontare la realtà, cerchiamo di essere al passo con i tempi. L’amore, quello catulliano, non va più di moda. Per sbarcare il lunario non è più possibile dedicare intere giornate a riempire pagine e pagine di metafore a forza di labor limae. Piuttosto credo – e soffro, mme sient’ nu straccio – che Sorrentino avesse ragione quando asseriva ne Gli aspetti irrilevanti che all’essere umano, nel suo cammino verso la morte, “interessa cavare la sensazione di aver trovato, fosse anche solo per dieci minuti, un compagno col quale avere una simbiosi”.
Con queste parole in mente mi reco in piazza D’Angennes con la consapevolezza che, al di fuori dei ruoli istituzionali di stagista, di volontaria del servizio civile e di studenti alla loro prima esperienza scuola-lavoro, ho avuto il piacere di conoscere tre ragazze davvero speciali, tre muse del Museo.
Gentildame
Non scherziamo. Certamente non al pari di Beatrice o di Laura, ma allo stesso tempo sicuramente interessanti e piacevoli da conoscere. Ragazze con cui confrontarsi, sia nella vita quotidiana sia in una pagina di testo.
Su questo non si transige. È ormai passato il tempo delle celebrazioni dell’onestà e della gentilezza – o presunte tali – della propria donna, quand’ella altrui saluta, piuttosto che del canto dei capei d’oro, i begl’occhi e ‘l viso di pietosi color’. Insomma, non è più attendibile fare ciò di cui si occupavano i poeti di un tempo: cantare una musa il più delle volte sconosciuta o soltanto adocchiata da una finestra meditando sulle sudate carte come il Leopardi.
Non è nelle grandi gesta, ma nella piccolezza delle azioni quotidiane che si riesce a vedere di che pasta è fatta una persona. Un sorriso rubato allo schermo del pc, un caffè al volo durante la pausa, una chiaccherata leggera e senza pretese tra la pausa pranzo e il ritorno a casa…
Silvia
E durante il suo lavoro di studio tra gli scritti del Modena e del Cusano alla ricerca delle descrizione più consone, Silvia mi ha aiutato a scrivere gli articoli attaccando tutti i giorni per me il cavo di alimentazione del mio Mac. Sempre, immancabilmente, scarico. Il 90% delle volte mi dimentico in ufficio il caricabatterie.
Ada
E durante il suo lavoro di compilazione del piano editoriale Ada non ha mai riso alle mie pessime battute. Facendomi tuttavia sorridere.
Lucrezia
E durante il suo lavoro di supervisione del lavoro altrui – anche i migliori gruppi han bisogno di un controllore – Lucrezia mi ha aiutato a scattare le fotografie del blog, lanciandomi furtivamente occhiate dolci e apprensive.
Paolo Colombo